Riflettendo sulla guerra in Palestina
Una guerra folle come tutte le guerre quella tra ebrei e palestinesi ma forse la più folle di tutte. Due popoli mediorientali in origine nomadi appartenenti entrambi al gruppo etnico e linguistico semitico; due culture diverse ma religiosamente accomunate per vie distinte dalla fede in un unico Ente supremo e da tormentate storie che si sono intrecciate in una limitata area del mondo; due nazioni che, l’una vantando una “promessa” divina e l’altra un diritto fondato sulla “jihad”, hanno in tempi diversi occupato con le armi la Palestina perdendone poi il controllo politico fino alla costituzione nel 1948 dello Stato d’Israele; due comunità che, invece di vivere in pace ed in reciproca collaborazione, hanno fatto fallire tutti i tentativi di accordo ed hanno seminato l’una nel campo dell’altra morte, distruzione e paura. E ciò con costi enormemente più pesanti per i palestinesi in conseguenza della netta superiorità della potenza militare israeliana sostenuta e foraggiata dagli Stati Uniti.
Ma perché non è stato possibile fermare subito la macchina bellica israeliana che, prendendo a pretesto uno sconsiderato attacco di Hamas (peraltro militarmente inoffensivo), ha scatenato nella Striscia di Gaza ancora una volta la sua micidiale potenza? Quali tortuosi interessi hanno tanto ritardato il doveroso intervento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che ha finalmente approvato, all’unanimità e con la sola astensione degli Stati Uniti, una risoluzione che chiede l’immediata cessazione del fuoco ed il ritiro completo delle forze israeliane da Gaza? E per quale motivo il nostro Governo non ha dato alcun apprezzabile contributo ai tentativi intesi a fermare il massacro coprendosi dietro certe rituali e vuote formule del linguaggio diplomatico?
La responsabilità di questo grave ritardo appartiene tutta alla politica estera del Presidente Bush. Una politica che ha stabilito in Israele la “torre di controllo” americana sull’intera area mediorientale, che nei tentativi di negoziato si è sempre sostituita alle Nazioni Unite e che si è caratterizzata per il pieno appoggio allo Stato ebraico e per una chiara ostilità verso tutte le rappresentanze del popolo palestinese. Ma il fatto è che la citata risoluzione è stata irresponsabilmente respinta dalle parti in conflitto e siccome il barbaro eccidio nella Striscia di Gaza continua va ricordato che l’art. 42 dello Statuto della Nazioni Unite attribuisce al Consiglio di Sicurezza, qualora le altre misure dovessero risultare inadeguate, «il potere di intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace».
E non basta perché la risoluzione con la quale il Consiglio di Sicurezza decide l’uso della forza comporta sempre una diretta assunzione di responsabilità nella gestione delle operazioni militari da parte dell’Onu che si avvale di contingenti armati appartenenti a stati nazionali ma deve porli sotto un comando internazionale facente capo allo stesso Consiglio di Sicurezza. Né si potrebbe invocare, per giustificare l’attacco israeliano, il ricorso alla legittima difesa perché se è vero che la Carta dell’ONU riconosce all’art. 51 il diritto naturale di autotutela, è anche vero che essa sottopone l’esercizio di tale diritto alla precisa condizione che sia in atto «un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite» e riconosce comunque questo esercizio per un tempo limitato e circoscritto: «fintantoché – dice l’art. 51 dello Statuto – il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza». E ciò a voler prescindere dalla considerazione che la difesa deve essere sempre a proporzionata all’offesa.
Ma dove è il movimento per la pace? Quali scoramenti e quali difficoltà interne bloccano il movimento “altermondista”? Se il capitalismo neoliberista frana sotto il peso di una crisi economica probabilmente irreversibile, se c’è il pericolo che il sistema dominante possa fare più frequente ricorso allo strumento bellico ritenendolo l’unica strada percorribile per ritardare il suo declino, se si aggravano gli squilibri e le disuguaglianze sociali, se i governi dei maggiori Paesi e la comunità internazionale sembrano guardare più verso il passato che verso il futuro, se c’è il rischio che persino la speranza Obama possa essere imbrigliata dai grossi apparati di potere politico e militare, se questi sono i fatti ed i timori che caratterizzano l’attuale congiuntura, è allora davvero il momento nel quale dovrebbero scendere in piazza e far sentire la loro voce quei movimenti pacifici di protesta e di proposta che qualche anno addietro avevano acceso tante speranze nell’intero pianeta.
Brindisi, 11 gennaio 2009
Michele DI SCHIENA
domenica 11 gennaio 2009
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