L’ “eterno ritorno” delle leggi ad personam«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali»: è questo il contenuto del primo comma dell’art. 3 della Costituzione che proclama il principio di uguaglianza giuridica come valore in sé e come fondamentale presupposto dell’uguaglianza in senso sostanziale, e cioè dell’uguaglianza sociale, sancito dal secondo comma dello stesso articolo laddove viene assegnato alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l’uguaglianza dei consociati. Una norma giustamente considerata la stella polare della nostra democrazia perché, nella parte assertiva, sancisce l’eliminazione di qualsiasi privilegio concesso in altre epoche storiche in favore di determinate persone, famiglie, caste o classi sociali e perché, nella parte propositiva, afferma l’esigenza che le istituzioni e la società civile si adoperino, in funzione dinamica, per realizzare le condizioni sociali che assicurino a tutti pari opportunità e che favoriscano l’effettiva democraticità dell’ordinamento e dei poteri da esso disciplinati.
Ebbene, in aperto contrasto con tale principio si pone il progettato disegno di legge rivolto a bloccare i processi a carico delle più alte cariche dello Stato e, a quanto pare, di altri non meglio precisati vertici istituzionali per la durata dei rispettivi mandati. La Costituzione non prevede alcuna eccezione al principio di uguaglianza sicché è da considerare inammissibile il differimento dei processi nei confronti di tali soggetti. Ne sono conferma i rilievi mossi dalla Corte Costituzionale nel 2004 al cosiddetto lodo Schifani, un provvedimento dichiarato illegittimo che prevedeva l’immunità temporanea per le persone investite delle cinque massime cariche dello Stato. Ne discende che per introdurre nel nostro ordinamento una sospensione temporanea dei processi occorrerebbe in ogni caso fare ricorso ad una legge costituzionale con la procedura prevista dall’art. 138 dello Statuto affrontando tutti i problemi, delicati e gravi quanto meno sotto il profilo politico, connessi al rilievo che si tratterebbe pur sempre di dar vita ad una disciplina che costituirebbe eccezione non ad una qualsiasi norma dello Statuto ma ad un dettato che proclama uno dei principi fondamentali dello Statuto medesimo, quello appunto dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
C’è poi lo sconcertante problema degli emendamenti al Decreto sulla sicurezza rivolti a dare priorità ai processi per alcuni reati sospendendone altri. Si tratta di “aggiunte”, per l’iniziativa di due parlamentari approvata dal premier, ad un provvedimento di urgenza (quello appunto sulla sicurezza) che sono estranee al contenuto originario del provvedimento medesimo a suo tempo autorizzato dal Presidente Napolitano e che limitano le prerogative del Capo dello Stato al quale viene sottratto, per la parte riguardante gli emendamenti, il controllo preventivo sulla sussistenza dei requisiti della necessità e della urgenza che sono presupposti indispensabili per l’emanazione del Decreto-legge e conseguentemente della sua conversione in sede parlamentare con la prevista procedura particolare ed abbreviata. Ma c’è di più e cioè che la sospensione dei processi, già approvata dal Senato, altera il rapporto tra i magistrati incaricati delle indagini (PM) e quelli cui è demandata la decisione (GIP o Tribunale) perché ai secondi viene inibita la prosecuzione del procedimento mentre i primi sono tenuti a portare avanti accertamenti ed indagini per il disposto dell’art. 112 della Costituzione che sancisce l’obbligatorietà dell’azione penale.
Ma quali sono le concrete e pratiche finalità di queste misure? I citati emendamenti impongono ai giudici di dare assoluta precedenza ad alcuni reati, quelli punibili con l’ergastolo o con la reclusione superiore a 10 anni ed alcuni altri delitti, mentre viene disposta l’immediata sospensione per la durata di un anno di tutti i procedimenti penali riguardanti fatti commessi fino al 30 giugno del 2002 (chissà perché non di quelli successivi) che si trovino «in uno stato compreso tra la fissazione dell’udienza preliminare e la chiusura del dibattimento di primo grado». Ed è proprio questo il caso del processo contro Berlusconi pendente davanti al Tribunale di Milano per corruzione in atti giudiziari nel quale il premier è accusato di aver versato 600 mila dollari all’avvocato londinese Mills per fargli dichiarare il falso sui fondi della Fininvest all’estero. Questo processo verrebbe quindi sospeso con l’intento, secondo diffusi sospetti ed implicite ma chiare ammissioni della maggioranza, di dare il tempo al Governo di fare approvare il disegno di legge sulla non punibilità temporanea delle alte cariche dello Stato, impedendo così che Berlusconi venga giudicato per il reato di corruzione in atti giudiziari. Il ritorno insomma alla grande delle leggi ad personam che saranno con ogni probabilità dichiarate incostituzionali dalla Consulta ma che intanto impediranno ai giudici di fare chiarezza in ordine alle accuse penali che gravano sul premier.
Ed infine, a completamento di questo desolante quadro, si aggiunge l’iniziativa dell’on.le Ghedini, avvocato di Berlusconi, che presenta istanza di ricusazione del giudice Nicoletta Gandus, presidente del collegio del citato processo per corruzione, magistrato notoriamente apprezzato proprio per la sua imparzialità. Una ricusazione motivata da una pretesa «grave inimicizia personale» del giudice nei confronti dell’on.le Berlusconi. Un’inimicizia che non sta né in cielo e né in terra dal momento che il codice di procedura penale giustifica la ricusazione per inimicizia grave solo nei casi di risentimento e di rancore nei rapporti interpersonali che nulla hanno a che fare con la critica politica contenuta in un documento che la Gandus, insieme ad altri, firmò nel febbraio del 2006 censurando alcune leggi approvate dalla maggioranza berlusconiana. Una ricusazione per la cui logica gli imputati non dovrebbero essere mai giudicati da giudici di diverso orientamento politico con buona pace proprio di quel principio di uguaglianza che vieta qualsiasi discriminazione dovuta a diversità di opinioni politiche e che ha come corollario l’impossibilità di far derivare da tale diversità limitazioni di qualsiasi genere. Siamo all’assurdo ma a Berlusconi si perdona tutto ed in un paese smarrito l’assurdo può vestire disinvoltamente i panni della più ovvia normalità.
E tutto questo avviene mentre il Paese si dibatte tra mille problemi, mentre viene applicata la “tolleranza zero” nei confronti degli immigrati relegando su un piano secondario la lotta alla criminalità organizzata, mentre si comprimono le intercettazioni rendendo più difficili le indagini su gravi crimini, mentre limitazioni e divieti mortificano il ruolo dei mezzi di informazione, mentre rilevanti organizzazioni sociali sembrano non abbiano nulla da dire e mentre una balbettante opposizione alza (momentaneamente?) la testa solo a seguito di impulsi esterni. Non resta che confidare in una salutare reazione di quell’ «itala gente dalle molte vite».
Brindisi, 20 giugno 2008
Michele DI SCHIENA